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I "Corti" di Piero Cannata

Ammetto senza problemi di essere un pessimo spettatore di cortometraggi. Mea culpa perché, da buon spettatore e appassionato di cinema "classico", presumo di essere inconsciamente convinto che un film, pena la sua qualifica, debba durare almeno (ma se dura di più, meglio...) un'ora e mezza, o giù di lì. Razionalmente sono certo che mai inconscio abbia commesso un errore di valutazione più grossolano. E sì che, nel periodo d'oro (come qualcuno di voi sa, siamo al platino...) mi sono girato parecchi festival internazionali (Sitges, Parigi, Avoriaz), dove il settore dei "corti" in più d'un caso dava la birra ai lungometraggi. Ma, insomma, i "corti", per loro dimensione, sembrerebbero prestarsi ad essere null'altro che dei giochetti stucchevoli, dove i plot sono delle situations e i meccanismi narrativi degli oliati ingranaggi sfilati e poi "compressi", ma di pertinenza totale dei "lunghi".

In realtà il mio è stato, per molto tempo, un pregiudizio, non c'è problema ad ammetterlo. E l'essermi visionato, a raffica, tutta la trilogia di Backstage e l'ultimo nato, Se la notte finisse, del regista palermitano Piero Cannata, un simpatico e talentuoso amico avvezzo a far razzia di premi ai festival di settore (ToHorror Film Fest di Torino, l'Alienante Film Festival di Milano, il Raglan di Formia e l'Independent Horror Festival di Livorno), mi ha fatto vieppiù ricredere. Perché Piero, come sua prima e principale dote, ha il respiro "lungo" del cinema tradizionale, con plot complessi e ricchi d'interconnessioni e percorsi carsici che fanno delle sue storie delle "creature vive" e, per questo, paradossalmente inafferrabili. Con la trilogia di Backstage (Prologo/Backstage, L'altro backstage e L'ultimo backstage), Piero si cimenta con un tema che è l'anima metalinguistica del cinema horror sin dai tempi del mitico Peeping Tom (L'occhio che uccide), rimesso recentemente in gioco dalla trilogia craveniana di Scream, dopo essere transitato con alterni risultati nel giallo-spaghetti degli anni Settanta e Ottanta: quello del "confine" tra la realtà e la finzione, tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra funzioni e simulacri, tra l'imparzialità apparente della mdp e l'occhio "assassino" del regista, tra docu-horror "vero" (come i corpi che volano giù dalle Torri Gemelle) e gothic horror falso, ma più vero del vero. In tempi di riscoperta tardiva di Dick (ma meglio tardi che mai), questi stanno ormai diventando argomenti per convegni "alti", con respiro accademico e masturbazioni semiologiche e c'è chi inorridisce in Italia a sentir dire che il genere horror, più quello cinematografico che quello letterario per una sua lampante peculiarità "meta", sta riflettendo sulle dimensioni di questo confine da quasi mezzo secolo (L'occhio che uccide è del '60, ma La finestra sul cortile - che horror non è, ma a molti horror contemporanei ha fornito ispirazione - è del '54), sempre più o meno attestando che la realtà catturata dal nostro occhio quasi sempre differisce dalla "realtà" filtrata e manipolata dall'occhio colpevole della mdp. Negli esempi più illustri le "stanze della paura" si presentano come un dominio non euclideo di scatole cinesi, dalle quali si entra e si esce come neuronalmente si può entrare o uscire da un film ed i tre Backstage, che ruotano - rispecchiandovisi - attorno alla realizzazione di un cortometraggio imperniato sulle "gesta" di un serial killer, non sfuggono alla regola. Il gioco, però, non è mai stucchevole e le piste non sono mai false. L'illusione e la realtà sono le due facce, anteticamente speculari, di un universo distorto e manipolato le cui leve sono impugnate, in ultima analisi, forse da un regista sconosciuto allo stesso Piero Cannata. Il quale, non lo nasconde, ha assorbito con intelligenza la lezione prospettica e la poetica spazio-temporale di John Carpenter (omaggiato ironicamente in un paio di passaggi), ma intende discostarsene nell'attribuire la "funzione" del killer non ad un qualsiasi, indistruttibile Michael Myers, ma ad un vero e proprio "oggetto" filmico e simulacrale, forse dal nulla plasmato dall'esistenza di una "copia" della maschera dell'assassino (e, in quanto "copia", forse siamo di fronte ad un copycat del nulla...).

Una parola, anche (e doverosa), all'ottimo uso di una periferia rurale siciliana, già intravista forse in qualche film di genere "mafia and Co.", ma qui sublimamente utilizzata e piegata ai canoni del genere. Particolare che risalta ancor più nell'ultimo nato Se la notte finisse, che all'ultimo ToHorror Film Fest ha avuto una menzione speciale per essere stato giudicato il video più spaventoso e angosciante tra quelli presentati, un corto con influenze argentiane e baviane (il Bava padre...), ma sviluppato con gusto personale, fondendo le migliori idee di un Blair Witch Project con la tradizione gotica italiana.

Danilo Arona

2003